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Marco Polo sulle nubi

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Archivio dell'Ufficio Storico dell'Aeronautica Militare
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LICEO SCIENTIFICO FRANCESCO D'ASSISI
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Volare nel 1920 con un minuscolo aereo percorrendo diciottomila chilometri con un unico ambizioso obiettivo: congiungere l’Italia al Giappone. Un sogno che si realizza grazie alla passione per il volo, alla determinazione e alla curiosità che conduce alla scoperta. È questa la storia di Arturo Ferrarin raccontata da Alessandro Verdecchia, studente del Liceo Scientifico Francesco d’Assisi di Roma, frutto del lavoro di ricerca e studio, svoltosi nella Sala di Studio dell’Archivio Storico dell’Aeronautica Militare, nell’ambito del Percorso per le Competenze Trasversali e l’Orientamento “L’Archivio come laboratorio di didattica della storia”.

 

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Decollo ore 11:00

Raid Roma-Tokyo. 14 febbraio 1920, campo di volo di Centocelle. L’appena venticinquenne Arturo Ferrarin, anche conosciuto come il Moro, si spinge oltre i confini dell’immaginabile, in un’impresa pensata dal poeta vate Gabriele D’Annunzio e dall’amico di penna Harukichi Shimoi, poeta e scrittore giapponese, docente di lingue orientali presso l'Istituto Universitario Orientale di Napoli. Nel 1920 il semplice "pratone di Centocelle", da cui il 15 aprile 1909 aveva avuto inizio il primo volo in Italia dell’aviatore statunitense Wilbur Wright, è ancora caratterizzato da un andamento irregolare ed è in parte coltivato e in parte destinato al pascolo del bestiame, spesso segnato da solchi e buche larghe e profonde; esiste non lontano il forte Casilina, costruito negli anni 1877-1891, al quale si aggiungono i caseggiati dell’omonima via e gli hangar del medesimo campo. Questo sito non sembrerebbe adatto al mirabile compito a cui si accingono Ferrarin e il collega Guido Masiero: alle ore 11.00 gli ultimi due SVA dello squadrone degli undici velivoli prescelti sono pronti al decollo. Ad accompagnare i due pionieri dell’aria ci sono i motoristi Gino Cappannini e Roberto Maretto. Stupisce la precaria attrezzatura a loro disposizione durante il viaggio: alcune pagine di atlante strappate di nascosto, altre carte acquistate a Roma relative al percorso da intraprendere e una bussola per l’orientamento; in più solo due chili di zucchero, una bottiglia di acqua di Colonia, una camicia e un paio di mutande. 

Lo spettacolo di arte varia

Costretto dal maltempo a volare a bassa quota, Ferrarin guadagna la scoperta di paesi tanto conosciuti quanto sconosciuti, muovendosi dagli scenari italiani dell’Europa occidentale fino alle vedute giapponesi dell’Oriente più lontano; è in grado di osservare e descrivere i paesaggi fisici e culturali delle terre da lui attraversate con gli stessi occhi di un fanciullo che volge per la prima volta lo sguardo a questo spettacolo di arte varia che è il mondo. Spettacolo vivace, dai colori cangianti, una festa organizzata da madre natura in persona; la natura risulta sempre perfetta anche nelle sue forme più scabre e irregolari. A questi paesaggi si mescolano indissolubilmente le belle architetture frutto del genio umano: arrivato a metà percorso, Ferrarin ammira “l’enorme mausoleo di marmo bianco che l’imperatore Djahan innalzò alla memoria di sua moglie”; trattasi del Taj Mahal di Agra, riconosciuto dal 2007 come una delle sette meraviglie del mondo moderno. Dopo aver attraversato il Golfo del Bengala, giungerà a Rangoon, città della Birmania, attuale Yangon, su cui domina la grande pagoda dorata; tutt’intorno giardini e costruzioni indiane o all’europea. La fauna locale trova libero spazio nel vissuto umano: lucertole verdi delle stesse dimensioni di un ramarro si nutrono delle mosche e degli insetti che infestano le case dei cittadini, addolcendone l’aria con l’intonazione di canti, considerati di buon auspicio dagli indigeni. Proseguendo per la tratta Rangoon-Bangkok, Ferrarin si confronta con il clima tropicale, già da lui affrontato nelle tappe precedenti. La Birmania è densa di foreste vergini, delle più varie tonalità di verde. La loro grande umidità è in grado di generare una nebbia tanto fitta da non permettere voli a più alta quota. Non a caso, i nostri aviatori sono lungamente messi alla prova da aromi balsamici vari e da un forte odore di ozono; come se non bastasse, in questi territori bisogna prestare la massima cautela, visto l’appellativo dato spesso alle foreste birmane di “mortali”. Ferrarin sopravvivrà alla funesta impervietà giungendo dopo non poco alla rossa Pechino, di cui visiterà il tempio di Confucio, dove ammira i tre padiglioni del palazzo imperiale, splendidamente circondato da laghi e giardini “da sogno”. 

La nota amara di un lungo viaggio

Unici elementi di disturbo di questo interminabile sogno, la variabilità del meteo e la guerra. Facciamo dunque un passo indietro, ripercorrendo le primissime tratte del suo lungo volo. Ferrarin attraversa per intero la Turchia, segnata dal sanguinoso conflitto tra Turchi e Greci. Sceso nei pressi della città di Aidin, per il malfunzionamento del velivolo del collega Masiero, viene invitato al banchetto dal Capo di Stato Maggiore del campo greco di aviazione che lì sorge; come narra Ferrarin nel suo libro "Voli per il mondo" : il pasto viene rallegrato dalla "musica delle mitragliatrici turche, che sparavano dell’altra sponda del fiume [il Meandro]”. Nonostante tutto, Aidin presenta contrade ricche di mazzi di rose e di gardenie. A rovinarne ancora i colori e i profumi, il raccapricciante e amarissimo racconto rivolto ai due aviatori da una signora locale, che per mano dei nemici turchi aveva perso la sua unica, bellissima figlia. Il viaggio prosegue, non di rado interrotto dalle intemperie metereologiche; come raccontato da Ferrarin, lungo il percorso non erano state installate stazioni radiotelegrafiche, né si poteva pensare di avere a bordo una radio con cui rimanere sempre aggiornati sulle condizioni del meteo. Si passa così attraverso Aleppo, che Ferrarin trova imbiancata dalla neve, continuando per la cocente Bagdad, anch’essa piegata dalla guerra tra ribelli arabi e inglesi. Le discordie civili non risparmiano neanche la prossima Ciaubar, in Persia, paese montuoso dalle alture singolarmente coniche. Agli alti monti si contrappone il caldo deserto, popolato da creature simili a cammelli. Le alte temperature della zona mettono alle strette i due pionieri dell’aria, portando l’olio di rifiuto del motore degli SVA a fuoriuscire e a investirli completamente. Seppur Ferrarin si aspettasse di incontrare ogni sorta di pericolo anche legato alla diversità dei climi che avrebbe dovuto affrontare, in molto differenti da quello temperato umido italiano, non aveva neanche immaginato di dover incontrare lo stato di guerra; da soli due anni si era conclusa la prima guerra mondiale, con la vittoria di Francia, Gran Bretagna, Italia, Russia e Stati Uniti. Alla luce di tutto ciò, ci si potrebbe chiedere: “Questo non bastava?”; ma il vero problema è che nessuno si chiede mai: “Quando basterà? E cosa dovrà bastare?”. Ferrarin non ci avrà pensato perché assorto da altro o per ingenuo ottimismo? Forse entrambe, forse nessuna delle due.

"Italia, banzai!"

Rimanendo con questo interrogativo, che dovrebbe essere ancora oggi uno spunto di riflessione per la nostra coscienza, giungiamo alla conclusione dell’impresa. Era il 31 maggio 1920, quando i due SVA giunsero a Tokyo atterrando su una radura appositamente preparata nel grande parco Joiogi, di cui alcuni alberi furono recisi per consentire a un maggior pubblico di assistere al grandioso spettacolo. Pioveva, eppure nessuno voleva perderselo. Immagino che il cuore di Ferrarin abbia gridato “M’illumino d’immenso” alla vista della tanto ambita meta. L’intrepida folla sventolava al vento il tricolore. Al rumore della pioggia si aggiunse quello della marcia reale italiana. Per i due aviatori si tennero discorsi di saluto, si porsero corone di fiori e innumerevoli regali, tutti gesti che è possibile semplificare nel grido corale: "Italia, banzai!". Erano ufficialmente cominciati i 42 giorni di festeggiamenti indetti dal Mikado, l’imperatore giapponese. Oltre ai grandi pranzi ufficiali organizzati dalle autorità giapponesi e dalle ambasciate, assistettero a un grandioso spettacolo della durata di ben dodici ore realizzato in loro onore presso il teatro imperiale. Per di più, in assenza del Mikado, ammalatosi, l’Imperatrice in persona aveva deciso di proferire parola ai due aviatori, rompendo così le regole del cerimoniale e venendo meno ai suoi diritti come "figlia del Cielo". Il tutto si svolse in una piccola sala, pur decorata nei minimi particolari. L’ambiente addolcito da delicati aromi. Sua Maestà celebrò la grandezza dell’Italia e dei suoi Sovrani: per la Regina Elena aveva fatto preparare due album di disegni, realizzati da bambini dell’età non superiore ai tredici anni, a cui era stata chiesta una loro interpretazione, realistica o allegorica che fosse, del raid Roma-Tokyo (poi dati in dono alla madre di Ferrarin dalla Regina Elena stessa come ricordo del viaggio intrapreso). Il Moro e Masiero ricevettero inoltre il massimo riconoscimento del Giappone imperiale, ossia la spada Shamurai, e l’immagine del loro volto venne posta in un tempio di Canton fra quelle dei cinquecento Budda, appena vicino a quella del celebre Marco Polo. Un’esplosione di fiori e di colori era l’arcipelago nipponico in quel bel periodo di primavera. Eppure, aveva ormai fatto capolino il momento per entrambi di fare rientro in patria. Ferrarin porgerà così poeticamente il saluto al suo velivolo, andato in custodia al Museo delle Armi giapponese:

Addio, o fedele amico mio!
Il dolce “vale” te lo porgo io.

Una missione rivoluzionaria

C’è chi potrebbe pensare che l’impresa di Ferrarin sia esclusivamente legata al sentimento patriottico degli italiani: il Moro si sarebbe librato in cielo per 12 mila miglia per il solo scopo di portare il nome dell’Italia nel lontano Oriente? Se quest’ipotesi non la si può escludere, è pur vero che Ferrarin sia anche spinto da un sentimento ben più alto: quello dell’amore per il volo, la sua pura passione per l’aviazione. Grazie all’aeroplano, l'uomo riesce a scoprire territori al di fuori dei suoi ristretti confini, facendosi ricercatore di nuove culture e nuove conoscenze. Per gli esploratori e gli amanti dell'avventura nasce una nuova era. Ferrarin diventa il Marco Polo dei cieli, come spesso argomentato da alcuni governatori orientali e dal primo ministro cinese. La sua impresa ci è testimone del fatto che siamo tutti figli di uno stesso cielo, che la lontananza da Paese a Paese non può essere motivo di indifferenza. Che nonostante le immense distanze, popoli diversi in tutto, cultura, morale, storia, si ammirino comunque. La lontananza dovrebbe essere motivo di curiosità, e alla curiosità dell’uomo non ci dovrebbero essere limiti. Ma chi può veramente essere curioso? Se ci facciamo la guerra per un pezzo di terra, la curiosità si potrebbe solo considerare un’utopia. Ferrarin, memore del primo conflitto mondiale, sa bene del dolore che la guerra è capace di arrecare; dunque descrive con disgusto le scene belliche che gli si presentano dinanzi. La parola che non dovremmo mai smettere di ripetere è appunto “memoria”. Memoria di cosa è stato, memoria di chi non c’è più, ricavare dagli eventi del passato insegnamenti per il presente. Un discorso che potrebbe forse sembrare fin troppo banale per tutte le volte che è stato ripetuto, ma mai abbastanza tante anche per coloro che hanno già avuto l’opportunità di ascoltarlo: ancora c’è chi vuole dimenticare, gridando un forte "Verba volant". E di questo siamo fin troppo coscienti. Dopotutto, come diceva Einstein: “Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma non sono sicuro dell’universo”.

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