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La passione che va oltre la morte: il lungo viaggio di Anita per tornare a Roma, da dove era partita
ARCHIVI COLLEGATI
Archivio dell'Istituto Internazionale di Studi "Giuseppe Garibaldi"
Roma - Piazza della Repubblica, 12
E Anita muore. Quella bruna testa,
che passò fra i baleni alta e tranquilla
sotto un perpetuo rombo di tempesta,
langue riversa, mentre il vespro brilla,
sopra un guancial pietoso, aprendo immota
sul dolce Eroe la vitrea pupilla.
.....
fra quell'umide mura ignote e sole,
ella piegò. Con ansioso affetto,
ei la chiamò, chiamò con passione
impetuosa il bel nome diletto:
e in desolata disperazione
la violenza del compresso duolo
dal cuor gli uscì. Quel core di leone
poteva ormai ben piangere: era solo.
Da questi versi di Giovanni Marradi emergono la passione e la disperazione di Giuseppe Garibaldi nel momento del trapasso di Anita, sua sposa, madre dei suoi figli e compagna di tante avventure. L’aveva vista per la prima volta nell’agosto del 1839 in Brasile, presso Laguna, dove era nata nel 1821. Era vittima di un matrimonio combinato, che l’aveva legata appena quattordicenne a un calzolaio, un certo Manuel Duarte de Aguiar.
Garibaldi se ne innamorò perdutamente e fu ben presto ricambiato. Nel 1842, dal momento che lei era rimasta vedova, i due si sposarono a Montevideo.
Nel 1847 Anita si imbarcò per l’Italia con i figli Menotti, Teresita e Ricciotti. Il marito la seguì nell'ottobre 1848. Quando Garibaldi si recò alla difesa di Roma, non volle portare con sé la donna per non farle correre troppi pericoli, nonostante le sue proteste. Anita lo raggiunse solo a giugno inoltrato, pochi giorni prima che la Repubblica Romana cadesse. Quando il 2 luglio 1849 Garibaldi abbandonò Roma, Anita era sofferente e al quarto mese di gravidanza. La drammatica ritirata, i pericoli e le privazioni d'ogni genere ne compromisero ulteriormente le condizioni. Nel nostro Archivio si conservano incisioni e dipinti sbiaditi dal tempo che ricordano gli ultimi giorni di Anita. Su una grande mappa si possono ripercorrere le tappe della sua via crucis tra le valli, le colline e le coste di Romagna, con soldati austriaci e gendarmi pontifici alle calcagna, ma con l’aiuto di una popolazione generosa e piena di coraggio, fino a quel 4 agosto del 1849 in cui fu portata, allo stremo delle forze, nella fattoria Guiccioli, nei pressi di Ravenna, dove spirò.
Garibaldi dovette riprendere la fuga lasciando Anita ai fattori, i fratelli Ravaglia, che la caricarono su un biroccino, legandola in modo che la testa non penzolasse e la portarono a circa 800 metri dalla fattoria, in un luogo disabitato detto Le Motte della Pastorara. Qui la seppellirono in una bassa fossa scavata nella sabbia. Sei giorni più tardi, il 10 agosto, una ragazzina vide sporgere dal terreno una mano umana: gli animali selvatici si erano accaniti su quel misero corpo. Fu avvertito il brigadiere dei gendarmi di Sant’Alberto e si procedette all’autopsia della sconosciuta.
Compiute le pratiche giuridiche e sequestrati gli indumenti per un eventuale riconoscimento, il giudice affidava il cadavere al parroco di San Clemente alle Mandriole, don Francesco Burzatti, che il giorno 11 agosto, avendo avuto l’autorizzazione dal vescovo, la tumulava nel cimitero della chiesa. Il sacerdote, però, era sicuro che quei poveri resti appartenessero alla moglie del Generale e scelse per seppellirla un luogo che si potesse facilmente ritrovare, vicino a una croce più grande delle altre.
Il buon parroco aveva visto giusto. Garibaldi non sopportava di aver dovuto abbandonare la sua amata. Non appena gli fu possibile, nel 1859, scrisse a Francesco Manetti, custode del Cimitero, che era sua intenzione venirsela a riprendere. Manetti, con un po’ di ingenuità ma armato delle migliori intenzioni, il 13 giugno di quello stesso anno ne trafugava la cassa per metterla al sicuro da eventuali malintenzionati, occultandola a casa propria a Sant’Alberto. Il parroco, venuto a conoscenza della cosa, convinceva il custode a portare le povere ossa senza pace nella sagrestia della chiesa. Fu qui che Garibaldi, accompagnato dai figli Menotti e Teresita, le avrebbe prelevate a ottobre per trasferirle a Nizza, sua città natale, dove da tempo riposava la madre Rosa Raimondi. Le spoglie di Anita giunsero a Nizza l’11 novembre del 1859 e furono deposte nella piccola cappella all’entrata del Cimitero del Castello, alla destra dell’altare, dietro un muro su cui fu posta, non sappiamo se subito o in seguito, una targa di marmo con la scritta Le ceneri di Annita Garibaldi.
Ma stava per succedere qualcosa che avrebbe dato a Garibaldi uno dei più forti dolori della sua vita: il 24 marzo del 1860 il Trattato di Torino sanciva l’annessione dell’ex Contea di Nizza e della Savoia alla Francia. Era il prezzo che il Regno di Sardegna doveva pagare per l’appoggio della Francia al processo di unificazione dell’Italia. Non solo la città in cui aveva visto la luce non era più italiana, ma la sua sposa era sepolta in terra straniera!
Fu il generale Ezio Garibaldi, figlio di Ricciotti e padre del direttore del nostro Istituto, a recarsi a Nizza sul finire del 1931 per riportare in Italia sua nonna. I particolari più interessanti vengono riferiti dal quotidiano «La Stampa» del 26 dicembre di quell’anno. Per prima cosa bisognava vedere se dietro alla lapide della cappella del cimitero ci fosse veramente il corpo di Anita. Con la massima cautela venne tolta la lapide – ora custodita nella sede del nostro Istituto - e fu abbattuto il leggero muro. La cassa era lì, ben conservata. Fu aperta qualche giorno più tardi, alla presenza di Ezio Garibaldi, di autorità e numerosi funzionari. Dentro c’era una cassa più piccola senza coperchio e foderata internamente da una carta da parati azzurra con un disegno floreale, che conteneva i resti di una donna di struttura esile e non molto alta, morta intorno alla metà dell’Ottocento.
A questo punto poteva cominciare il viaggio verso l’Italia. Prima tappa Genova. Il 24 dicembre del 1931 Anita veniva posta provvisoriamente nel Pantheon del cimitero di Staglieno, tra alcuni dei più fedeli garibaldini, Stefano Canzio e Nino Bixio.
Finalmente il 2 giugno del 1932, nel cinquantesimo anniversario della morte di Giuseppe Garibaldi, Anita fu posta dove si trova ancora oggi, in un piccolo spazio ai piedi del monumento a lei dedicato a Roma, sul Gianicolo, opera di Mario Rutelli. Anita era tornata a Roma, là dove era iniziato il suo ultimo viaggio.
Il monumento è sormontato da un dinamico bronzo in cui la donna è raffigurata a cavallo, con i lunghi capelli sciolti, mentre stringe al seno uno dei suoi figli, il piccolo Menotti, e punta in alto una pistola. Sulla base alcuni rilievi in bronzo rievocano altri episodi della vita di Anita. Di questi rilievi si conservano nella sede del nostro Istituto due grandi modelli in gesso eseguiti da Mario Rutelli, recentemente restaurati, uno con Anita a cavallo alla testa di alcuni garibaldini e l’altro con la donna morente in braccio al marito.
(Testi di Cinzia Dal Maso)