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Dalla Casbah al Leone d’oro: ricordi de La Battaglia di Algeri
Giuliano Montaldo
Dalla Casbah al Leone d’oro: ricordi de La Battaglia di Algeri
Sul set c’era una gran confusione e un caldo infernale. Si parlava italiano, francese e naturalmente arabo. Una luce straordinaria e perfetta. Il budget era limitato e la troupe risicata, mancavano delle figure chiave come ad esempio la segretaria di edizione, ricordo che fu chiamata dall’Italia a mettere ordine al caos che dopo pochi giorni di riprese si era inevitabilmente generato.
Io non avevo partecipato ai sopralluoghi preliminari, quindi mi trovai d’improvviso catapultato in una dimensione aliena. Non ero mai stato in Algeria prima, e subito Algeri mi apparve come una città in costante fermento.
L’atmosfera era di grande eccitazione. Non c’era neanche un attore professionista e ciò contribuiva a rendere molto complesse le riprese. D’altronde questo faceva parte delle intenzioni del regista. Gillo voleva scritturare soltanto persone del luogo che avevano partecipato alla resistenza algerina o che ne condividessero gli ideali. Lui era molto attento ai volti, agli sguardi, bastavano i lineamenti giusti per convincerlo a scegliere un attore. Il casting era avvenuto sul posto, tra gli abitanti della Casbah. In generale erano tutti molto collaborativi, quasi lusingati per l’interesse nostro a raccontare la loro epopea. Per le donne era stato necessario chiedere il permesso ai mariti o ai genitori. I ruoli erano stati tutti assegnati, l’unico che si faticava a trovare era quello, decisivo, del colonnello francese Mathieu.
A un certo punto Gillo mi dice: “Lo vuoi fare tu?”. Io ci penso su e poi gli rispondo: “Ma ti immagini la reazione del pubblico a Roma quando mi vedranno apparire? Non credo che sarei credibile”. Scoppiammo in una grande risata. Ecco che si spiega come alla fine venne chiamato un attore da Parigi, l’unico professionista del film.
Era il 1966, ero all’inizio della mia carriera e dirigevo la seconda unità di regia. Gillo Pontecorvo ordinava ed io eseguivo. Usavamo una pellicola DuPont, ottima per il bianco e nero, l’ideale per ottenere quell’effetto ruvido e granuloso che dava l’idea del cinegiornale. Quando il film uscì gli americani scrissero che avevamo usato immagini di repertorio, ma non era vero. Tutto era stato girato sul posto e ricostruito. Si era riusciti nell’intento di rendere veri e credibili gli avvenimenti. Merito di Gillo.
Noi eravamo amici, avevamo abitato insieme e condividevamo gli stessi ideali, con lui c’era un rapporto di affetto e grande ammirazione. Mi ha sempre colpito la sua incredibile quantità di idee, era uno che aveva tantissimi progetti nella testa e tra le mani. Questo, a ben pensarci, contrasta con il fatto che abbia realizzato soltanto sei film! Persino lì sul set annotava pensieri, poi li cancellava, e scriveva ancora, producendo una gran mole di appunti. Il suo archivio, oggi conservato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino, è un’immensa miniera di documenti. Alcuni personali raccontano l’impegno politico, il suo passato da partigiano, altri più cinematografici riguardano i premi ricevuti, i materiali di lavorazione dei film o altri progetti culturali. Ma un’intera sezione è dedicata appunto ai tanti soggetti mai realizzati.
Persino La Battaglia di Algeri era la trasformazione di un progetto sfumato. Gillo voleva realizzare un film dal titolo Parà ambientato in Algeria e quindi aveva già studiato i luoghi e conosceva bene il contesto coloniale. Quando gli algerini lo contattarono per un film che raccontasse la loro lotta di indipendenza, lui era pronto. Mise sul piatto la sua totale libertà e autonomia e loro accettarono.
Quei giorni li ricordo con nostalgia. Eravamo affiatati e avvertivamo la responsabilità di documentare un evento storico così significativo. Ma io forse non ero completamente consapevole dell’importanza di quella esperienza. Stavo partecipando a un film che sarebbe entrato prepotentemente nella storia del cinema.
Quando a Venezia vinse il Leone d’oro ricordo gli applausi. Più che le contestazioni, inevitabili, ricordo i lunghissimi e meritatissimi applausi.