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Associazione Memoria della Benedicta
SITO
Il rastrellamento della Benedicta è il culmine di un’operazione militare condotta dai comandi militari germanici di Genova e Alessandria, ispirati, sollecitati e assistiti dai funzionari locali e dalle truppe della Repubblica di Salò durante i giorni di Pasqua dell’aprile ’44: un’operazione che comportò l’annientamento delle compagini partigiane concentratesi nella zona del Monte Tobbio. Fu un evento inedito e traumatico che colpì in primo luogo il numeroso gruppo di giovani partigiani, travolti, e poi catturati o sterminati nel corso del duro rastrellamento, ma anche le persone che abitavano in quell’area, così come le famiglie dei giovani caduti e le comunità dei loro luoghi di provenienza. I numeri parlano chiaro: più di 150 fucilati e quasi 200 deportati nel campo di concentramento di Mauthausen.
L’immagine più impressionante e simbolica di quegli eventi è forse la deflagrazione e il collasso della grande cascina che dà il nome all’evento. Un luogo simbolo, ma minuto, del tutto comune, così come relativamente ristretto e marginale è il teatro dell’evento, rispetto agli ampi scenari della guerra europea: un fazzoletto di terra, per certi versi. Ma altri luoghi e altre immagini riconducono a quell’episodio, e portano a storie di donne e di uomini condotti in maniera diverse, e con storie diverse, verso destini molteplici: quella del plotone d’esecuzione alle pendici del Turchino, dove 17 partigiani arrestati durante il rastrellamento trovarono la morte insieme a altri 42 prigionieri politici per rappresaglia; o quella della stazione di Sesto San Giovanni, dove i ferrovieri riuscirono a far saltare i lucchetti dei portelloni e liberare i giovani catturati durante il rastrellamento; o ancora il piccolo ideale fotogramma relativo alla stazione di Brescia, dove uno dei deportati, Stefano Mazzarello, riesce a lanciare dal vagone del treno che lo conduce alla deportazione l’ultimo disperato messaggio indirizzato alla sua famiglia; fino a uno degli spazi simbolo della tragedia del Novecento, quello dei campi di concentramento, in questo caso quello di Mauthausen, fine corsa per centinaia di quelle giovani vite, e luogo di morte per migliaia di perseguitati europei.
Centinai di ragazzi, antifascisti, renitenti alla leva, soldati allo sbando, prigionieri evasi dalle carceri dopo l’8 settembre 1943, partirono in quei mesi in direzione del Monte Tobbio. Provenivano per la grande maggioranza dalle città e dai paesi vicini: da Alessandria e Genova, dalla zona del Tortonese, da Arquata Scrivia e Serravalle, dal novese, dalla zona di Ovada, dalla valle Stura e dai quei comuni più prossimi a Marcarolo: Voltaggio, Bosio, Parodi Ligure, Campomorone, Ceranesi, Isoverde. Queste ultime comunità, in particolare, videro intere generazioni di figli scomparire nel rastrellamento. Furono i loro parenti, le madri in particolare – nonostante il divieto che impediva l’attraversamento della zona a causa delle operazioni militari in corso – che all’indomani della strage intrapresero una prima volta quello stesso cammino, per svolgere il terribile compito del riconoscimento dei cadaveri, e per provare a dare loro, tra mille difficoltà, una prima, provvisoria sepoltura. Quell’itinerario lo ripercorsero poi, una seconda volta, a guerra finita, per il recupero delle spoglie, in modo da poterle restituire ai loro paesi d’ origine per le esequie ufficiali, alle quali parteciparono in massa le popolazioni coinvolte.
Una quantità di memorie sono nate e si sono consolidate nell’esperienza, nel lutto; ma anche nella consapevolezza del significato storico più generale di quell’evento. Dà lì ancora ripartono, ognuna per un altrove: una nuova riformulazione del ricordo, un rinnovamento del sentimento di commozione, di pietà, di orgoglio per aver, tramite quei morti, partecipato ad un momento così tragico ma fondativo della coscienza italiana ed europea odierna.
Alcuni di questi lacerti di memoria furono depositati negli anni dopo la guerra – in forma di carte, di oggetti, di testimonianze – presso gli Istituti storici della Resistenza, altri in luoghi o depositi del tutto differenti. Ci sono stati ex partigiani che si sono fatti carico in prima persona di raccogliere e riconsegnare storie e testimonianze. È il caso di Luciano Franzone (Mucchio), di cui troviamo l’ intervista nel sito dell’Associazione, che si occupò presso la sede Anpi della Valpolcevera di riordinare tutti i documenti e le foto in possesso della sezione secondo il metodo scientifico tradizionale in un archivio, piccolo ma preziosissimo, consolidato con la lungimirante intuizione, durante gli ultimi anni della sua vita, delle potenzialità del web, che hanno permesso di procedere alla digitalizzazione dell’intero repertorio fotografico.
Alcune memorie sono invece rimaste sempre in un ambito privato, e perciò sono stati e sono più difficili da recuperare ad una memoria pubblica: si trovano nelle case dei loro proprietari, in cassetti pieni di ricordi, album fotografici, e sono non di rado oggetti conservati fin dall’infanzia dai loro proprietari.
Insieme ai documenti e agli oggetti ci sono poi degli esercizi di memoria privati, che a volte si configurano come vere e proprie inchieste condotte da uomini e donne comuni, spesso riconducibili all’attaccamento ad un luogo, e al modo in cui la storia ha incrociato la vita delle persone vicine. Ne è un esempio la puntuale ricerca fatta da Renzo Pastorino sui caduti di una piccola frazione appena fuori dall’abitato dell’importante comune di Ovada, il Gnocchetto, che ha voluto riportare alla luce una piccola verità storica, attribuendo la reale provenienza e dunque l’identità ad uno dei molti caduti della Benedicta: Pietro Caneva.
Si è trattato e si tratta di un lavoro, che ancora oggi procede, di recupero di memorie diverse, eterogenee, e spesso disperse, non di rado anche potenzialmente in conflitto tra di loro. Memorie custodite gelosamente, rielaborate a seguito di atroci sofferenze, testimonianze di storie singole, familiari, corali, ma anche intimamente legate a coloro che le hanno costruite e difese, elemento fondante di identità più o meno ampie.
Sono memorie che le persone hanno anche, fin dagli anni immediatamente successivi alla Liberazione, riportato sempre lì dove tutto è cominciato, lungo le salite che portano alla Benedicta; memorie che la commemorazione dell’eccidio che tutti gli anni si celebra intorno al 7 aprile, ancora oggi molto partecipata, contribuisce a conservare, ad alimentare.
Così potremmo definire dunque questo progetto di archivio digitale, un ritorno, e insieme una manutenzione.
Una manutenzione del ricordo in uno spazio virtuale, dove possono convergere tutte queste memorie lontane e diverse, e convergendo ulteriormente rielaborarsi, arricchirsi.
Quest’ultima caratteristica, il fatto cioè di essere un archivio non fisico ma digitale apre una nuova frontiera per la comprensione e lo studio dei tragici fatti della primavera del ’44. La volontà è quella di mettere a disposizione il maggior numero di testimonianze, di mettere insieme gli archivi piccoli e grandi, vicini e lontani rispetto al luogo dell’eccidio, gli inventari e le indicazioni per accedere materialmente a questi oggetti del ricordo, ai luoghi fisici che li conservano, siano essi biblioteche o collezioni private. Il progetto è quello di creare uno spazio digitale completo, correlato da una piattaforma web funzionalmente strutturata e che consenta una consultazione adeguata, in modo da avere per prima cosa una immediata visione di insieme, ma anche di favorire, in seconda battuta, possibili percorsi di analisi delle relazioni e delle connessioni tra uomini, luoghi ed eventi, prima impensabile.
Un aspetto su cui si insiste, nelle potenzialità di questo archivio digitale, è quello di portare alla luce l’esistenza di archivi che potremo dire minori, se non fosse questo un modo di sminuire l’importanza che invece è enorme delle ricerche condotte da singoli, della ricchezza che riservano i fondi di alcune biblioteche di quartiere o di paese in cui sono presenti materiali sull’eccidio, che fino a oggi sono rimasti patrimonio esclusivo ed oggi sempre più fragile di piccole comunità locali.
Questo puntuale lavoro consentirà di superare i limiti che oggi, paradossalmente, proprio gli strumenti digitali evidenziano: si pensi ad esempio al fatto che, facendo una prima ricerca sul web (ad esempio su un motore di uso comune quale google immagini), le fotografie che vengono messe a nostra disposizione risultino essere sempre un po’ le stesse, quelle cioè che ritroviamo sui volumi più noti e diffusi che parlano dell’argomento, e riconducibili, in generale, a un ristretto numero di fonti.
Costruire invece un nuovo archivio, o un archivio di altri archivi se vogliamo, consentirà anche di superare questi limiti, di arricchire anche nell’immediatezza della percezione visiva la ricchezza di una memoria consolidata, comune, ampia e partecipata, ma che, come tutti gli esercizi di memoria, ha un enorme bisogno di manutenzione.
Un esercizio di cui l’Associazione rivendica l’importanza. Un esercizio civile, di vera e propria public history, che nulla ha a che fare con una idea neutra dell’archivio come deposito spontaneo: sono le persone, con le loro azioni prima, e con la testimonianza di quelle azioni dopo, che hanno scritto una pagina così importante della nostra storia. Ed è questa missione che l’Associazione vuole promuovere: difendere, diffondere e consolidare quella storia e quella memoria, perché il tempo non cancelli quanto invece merita e meriterà sempre di essere sempre più e sempre meglio ricordato.